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AD UN PAIO DI METRI

 

di Francesco Della Rovere

"L’alba. Il sole appena nato, schiariva il cielo scuro dalla notte, e ci dava speranza, in quella mattina gelida di ansia. Quel giorno partiva un barcone: la nostra via di fuga. Dovevo arrivare in tempo e pagare con i soldi che mi avevano dato. Tutto facile, mi avevano detto.

Ma le coste erano lontane, troppo lontane da dove vivevamo: sono ormai più di un dì e una notte che cammino.
Non ho ben capito perché sono scappato, è scoppiato il caos, durante la notte. Mamma, tutta preoccupata mi ha raccomandato bene tutti i miei compiti, forse troppi per uno come me e mi ha dato i soldi, per la barca. Avevo preso mio fratello di un anno e, con lui in braccio e con una borsaccia in spalla ero partito, non so a cercare cosa.
Casa cercava di essere solo un ricordo nella mia mente, ma come fare a farcela? Come potevo dimenticare la mia famiglia?

Camminavo e camminavo, ma il mare si vedeva appena, lontano e sfocato e in mente avevo solo l’immagine di mia madre che correva accorata da me, per farci scappare, accompagnata dal viso ingenuo di mio fratello e continuavo a domandarmi che aveva fatto lui per meritare tutto questo?

Attorno a me il nulla m’accompagnava, solo deserto, deserto, e altro deserto; senza acqua, né cibo, camminare diventa il tuo unico hobby, insieme a rimanere vivo. Il sole, appena nato mi indicava la strada, ma forse non ero pronto a percorrerla, lo facevo solo per mio fratello, lui non si era meritato le bombe sopra casa nostra, o la desertificazione che è adesso la nostra famiglia, né tanto meno me, uno dei fratelli peggiori della storia, che non sa nutrirlo, farlo smettere di piangere, o dargli, una nuova vita, dove, spero, non debba scappare, come in questa.

Camminavo e camminavo, distrutto dalle forze che non avevo, dall’assenza di mia madre, di mio padre, o di una guida. Mio fratello, piangeva, non so per quale tra i tanti motivi che aveva per piangere e le sue lacrime che cadevano a terra erano forse le uniche gocce d’acqua nel raggio di chilometri. I granelli di sabbia, sotto i miei piedi, erano come vetri rotti e a ogni passo affondavo sempre di più, con me mio fratello e con noi la nostra vita.

Ma dovevo reagire, ero io adesso “l’uomo di casa”, anche se non c’era la casa.
Ora ho delle responsabilità, come prima erano di mio padre e prima ancora di mio nonno, continuavo a ripetermi.
Tutta la mia famiglia ha compiuto lavori del genere, per loro sarebbe una vergogna se io non li rispettassi proprio nel momento del bisogno.

Ma, continuando, pensando e ricordando la mia famiglia, ero arrivato, alla “porta” per una nuova vita, tanto sperata, e meritata, almeno da mio fratello. Forse portarlo nel nuovo mondo era per me il “meritarsi” di accedervi. Forse compiere questo viaggio era una prova, che stavolta dovevo superare, e dalla quale non dovevo fuggire, come in passato.

Eh, il passato, diciamo che l’ho lasciato a marcire, come il futuro ha fatto con la mia famiglia.
Un passato trascorso a schivare proiettili e bombe che aggravavano alla nostra situazione. Un passato consumato in una misera casetta, senza soldi con il solo futuro a proteggerti dalla vita. Ma quando anche il futuro ti tralascia non puoi che cercare una nova vita, oltre quella che hai, che forse è già andata.

Ma oramai ecco lì il barcone, la nostra “porta” dovevo scappare.
Una volta dati i soldi eccomi sull’incerto barcone, precario, forse troppo poco degno di portarci in una nuova vita.

Il barcone era stracolmo, al punto che se ci fossimo mossi tutti insieme sarebbe affondato all’istante, senza ripensare a chi lo meritasse o no. Tutti quanti ci guardavano, forse troppo strani in mezzo a tutto ciò che non era neanche lontanamente normale. Tutti costretti a scappare da condizioni precarie, impossibili da vivere se hai una sola vita a disposizione. Gli occhi, gli sguardi di chiunque, lì dentro, erano colmi di paura, e specchi di un’esperienza di vita troppo agghiacciante per una mente normale che non ha mai vissuto il dolore, il vero dolore.

Il barcone ondulava, e si muoveva lento, sull’acqua come volesse scuotere le nostre vite, come se non lo fossero abbastanza. Le nostre però erano ancora in bilico, oscillavano sul filo che ti separa dalla morte, e dal tuo passato, insomma non c’era futuro, non c’era speranza.

Continuava, così, per ore, se non giorni, il tempo, come in una galleria, non riceveva il segnale della nostra estrema stanchezza, forse stanchi di non avere una vita, non arrivammo mai, ricordo solo uno scossone, poi la pioggia, dal cielo al barcone, e una pioggia di noi dal barcone al mare, e dal mare al fondo, e dalla vita alla morte.

Mio fratello, era lì, ad un paio di metri sopra di me, stava affondando, stava morendo, per colpa mia. Ma lui era degno di una vita, lui non meritava la morte. Ma la morte non fa differenze, la morte è una brutta bestia, cieca, senza cuore.
Così ho detto addio a mio fratello, troppo piccolo per saper nuotare, per vedere la morte come fosse reale.

Questa è la mia storia, la storia di come io sono vivo e mio fratello morto, preferivo sicuramente il contrario.”

Ma le uniche parole udite dalle mie orecchie sono: “bene, il prossimo per le impronte, grazie”.
Così prese le impronte mi lasciano solo a me stesso, e mi ripeto: “forse se avessi tratto meglio il mio passato, il futuro, mio e di mio fratello, non ci avrebbe voltato le spalle. Forse non ho superato la prova, e forse non sono ancora salvo”.